È partita la caccia a Pierluigi Bersani. Nessuno ne chiederà la testa. Pretenderanno il resto del corpo. Anche il dna. Linea politica, quella delle alleanze a tutto campo, da azzerare, ritorno sostanziale alla vocazione maggioritaria, ricambio della classe dirigente. Questi i paletti. Un commissariamento in piena regola. Inaccettabile per un leader pienamente legittimato dalle primarie.
Si riapre una stagione dei veleni nel Partito democratico. La resa dei conti, lo scontro permanente, le lotte personali. Bersani l'ha messa nel conto. A questa sollevazione immanente si deve una conferenza stampa di commento al voto tutta giocata in difesa, nel rifiuto del termine sconfitta, nella spiegazione articolata dei dati per dimostrare la tenuta. "Uno show imbarazzante", dicono gli avversari interni. Non ha voluto lasciare spiragli all'opposizione interna, il segretario. L'ha affrontata nella riunione notturna del coordinamento, l'organismo in cui siedono Veltroni, D'Alema, Fassino, Marini, Fioroni. Bersani, secondo gli oppositori, dovrebbe oggi far camminare sulle sue gambe la strategia degli sfidanti al congresso. "Ma il congresso l'abbiamo vinto noi. Franceschini e Veltroni per tre anni stanno in minoranza", dice battagliero il dalemiano Matteo Orfini. "Se il Pd non lo fa Bersani, lo farà qualcun altro", avverte però Giorgio Tonini. Lo strumento della Fondazione Democratica, che sta per nascere sotto l'imprimatur di Veltroni, può allargare il suo campo d'azione ancora prima del parto, diventare l'alter-ego del partito, incalzarlo, pungerlo, richiamarlo continuamente alle origini del discorso del Lingotto, frenarlo nella ricerca di intese fuori e dentro il Parlamento come vorrebbe Bersani.
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